L’interessante articolo di Tiziano Antonelli comparso sul numero scorso di UN così terminava: “Se il budino di Marx ed Engels non era riuscito tanto bene, quelli sfornati dai loro epigoni sono proprio immangiabili.”(1) Mi permetto parzialmente di dissentire: i budini – fuor di metafora: i risultati storici effettivi – degli epigoni di Marx sono sicuramente disgustosi, ma la ricetta – per tornare in metafora – gli è stata fornita dal capocuoco e loro vi si sono attenuti.
Cominciamo con un’analisi storica e, soprattutto, fenomenologica degli eventi legati al socialismo (ir)reale. Dopo molti secoli in cui le rivolte popolari, sia di matrice urbana sia contadina, si erano spesso rifatte all’idea mitica di un comunismo cristiano delle origini come modello per costituire una nuova forma sociale, questo progetto comunista di una società senza classi e senza governo, a partire dal XVIII secolo si era andato sempre più laicizzando e perfezionando; con il secolo successivo, nelle forme anche concettualmente sofisticate in cui si era andato sviluppando, aveva permeato di sé un enorme numero di coscienze, particolarmente nelle classi inferiori coinvolte nella Rivoluzione Industriale. L’idea di una rivoluzione che risolvesse alla radice la “questione sociale” andando a formare una società autogovernata ed economicamente basata, cum grano salis, sul principio “da ognuno secondo le sue possibilità, ad ognuno secondo i suoi bisogni” era nei pensieri e nelle azioni di centinaia di milioni di esseri umani. La micidiale macelleria di povera gente innocente passata alla storia con il nome di Prima Guerra Mondiale fu – l’analisi è condivisa pressoché da tutti gli storici – anche dettata dal desiderio di tenere sotto controllo le tensioni rivoluzionarie che si agitavano all’orizzonte, disturbando i sonni delle classi dominanti.
Questa guerra, però, portò con sé – dopo il primo e circoscritto tentativo della Comune parigina del 1871 – la prima rivoluzione su larga scala dai caratteri dichiaratamente volti verso l’instaurazione di una società comunista: la Rivoluzione Russa del febbraio 1917, che si caratterizzò sin dall’inizio per i caratteri egualitari ed autogestionari impliciti nell’organizzazione originaria dei soviet. Dopo un periodo di lotte rivoluzionarie, nell’ottobre 1917 un partito marxista conquistò il potere politico, affermando che il suo sarebbe stato un potere transitorio, volto a dare “tutto il potere ai soviet” per poi sciogliersi. Già dopo pochi mesi, però, l’organizzazione egualitaria e libertaria dei soviet veniva distrutta a favore di una dittatura monopartitica basata sul potere di un singolo uomo, la quale metteva immediatamente in atto una serie di interventi nel mondo del lavoro volti a distruggere ogni forma di autonomia delle classi lavoratrici ed a restaurare pienamente quel salariato che lo stesso Marx, in più punti della sua opera, aveva dichiarato essere la cifra distintiva del capitalismo.
La stessa cosa si ripeteva in ogni paese dove un partito marxista giungeva per via rivoluzionaria, utilizzando l’azione delle masse lavoratrici volte all’instaurazione di un autentico comunismo. Dove poi le masse si organizzavano autonomamente per giungere a questo obiettivo in maniera diretta, gli stati retti da partiti marxisti intervenivano dall’esterno per restaurare le forme sociali capitalistiche messe in discussione – il caso più eclatante, ricordato recentissimamente proprio su queste pagine, è quello della Rivoluzione Spagnola del 1936-1939.(2)
In questo periodo, essi hanno distrutto da un lato ogni forma di autonomia del mondo del lavoro tramite meccanismi legislativi e forme repressive che sarebbero il sogno di tutti i Marchionne del mondo e, dall’altro, hanno gettato un discredito totale sull’idea stessa di comunismo, dal momento che essi dichiaravano di essere una “fase di transizione” verso di esso ed autonominavano “comunisti” i loro partiti, mettendo in difficoltà chi, in ogni parte del mondo, restava fedele all’idea originale di una società egualitaria ed autogestionaria, per non dire il fatto che hanno massacrato decine di milioni di persone che, dentro e fuori i partiti al potere, erano in un qualsiasi modo riottosi a questo andamento. Alla fine della giostra, hanno ricostituito nei loro paesi nelle forme più radicali il capitalismo liberista, passando individualmente parlando senza problema alcuno dalla casacca di funzionario di partito a quello di proprietario di azienda e, talvolta, come nel caso cinese contemporaneo, potendoli vestire entrambi.
Questa dinamica può ricevere ogni genere di giustificazione, ma nei suoi aspetti di evidenza fenomenologica non può essere negata. In che senso però dicevo che questa ricetta, in tutti i suoi aspetti, è perfettamente contenuta nel pensiero di Marx?
Per capirlo, va chiarito il concetto marxiano di “fase di transizione”. Ad un primo sguardo distratto, si può pensare che Marx parli di un processo nel quale il partito, una volta conquistato il potere, esercita la “dittatura del proletariato” portando gradatamente nella società sempre più elementi egualitari ed autogestionari in opposizione alle forme sociali capitalistiche, fino alla completa trasformazione di essa in una società completamente diversa. In realtà, la “fase di transizione”, come la intende Marx, è l’esatto contrario di quanto ora descritto.
Infatti, è arcinoto come Marx ritenga che le forme di produzione si trasformino l’una nell’altra solo quando quella precedente ha raggiunto il massimo sviluppo delle forze produttive compatibile con essa. La cosa, dicevamo, è arcinota, ma assai meno nota è la sua conseguenza logica: il capitalismo è fase di transizione a se stesso. Una conseguenza logica che ha però degli immediati effetti pratici in termini di politica economica di un partito marxista al potere: se il capitalismo è fase di transizione a se stesso, non solo non va ostacolato in alcun modo ma agevolato in ogni modo possibile. In altri termini, le politiche del socialismo (ir)reale nelle sue varie forme, proprio negli aspetti che, come dicevamo, sono il sogno di tutti i Marchionne del mondo, non sono affatto una cattiva applicazione della ricetta originale, anzi.
Ora, è chiaro che il ritrovarsi sotto una simile cappa di piombo, per di più dopo aver rischiato la pelle e magari perso affetti in una rivoluzione, non ha fatto certo piacere a tantissimi – la maggioranza – che vi si sono trovati immersi. Di conseguenza non va sottovalutato affatto il ruolo della forza nell’accettazione di una simile condizione: in parole povere, il solo accennare dall’interno alla sostanziale identità strutturale di tali società “socialiste” e di quelle dichiarantesi senza remore capitaliste comportava la quasi certezza dell’incarceramento, se non della tortura e della morte. L’aspetto di controllo ideologico, però, non va sottovalutato: se si accetta la tesi chiave di Marx per cui le forme di produzione si trasformano l’una nell’altra solo e soltanto quando quella precedente ha raggiunto il massimo sviluppo delle forze produttive compatibile con essa, in qualche modo si sta di fatto giustificando le peggiori nefandezze del socialismo (ir)reale e l’azione di un simile potenziale oppositore, di conseguenza, verrà ostacolata da questo suo stato di coscienza.
In realtà, nemmeno l’analisi economica di Marx è priva di colpe nel senso che stiamo evidenziando e, ancora una volta, non si tratta di aspetti secondari, seminascosti, ma dei tratti più noti del suo pensiero. Marx, infatti, analizza l’economia capitalistica partendo dal presupposto che il primato vada al momento della produzione piuttosto che a quello della distribuzione dei beni prodotti – di qui il suo accento sull’analisi delle forme di produzione. Messa in questi termini però la cosa, egli di fatto mette pressoché fuori gioco ogni possibile critica sull’aspetto della distribuzione della ricchezza sociale nella “fase di transizione”. Le modalità effettive di vita delle classi lavoratrici, che dipendono invece strettamente dai meccanismi di distribuzione della ricchezza socialmente prodotta, diventano perciò, in quest’ottica, del tutto secondarie e sacrificabili alla “fase di transizione” – cioè al capitalismo stesso.
Diceva però lo stesso Marx giovanissimo che “La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nell’attività pratica che l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere terreno del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli dalla pratica è una questione puramente scolastica.”(3) Questo è il motivo per cui questo discorso è iniziato con una ricognizione fenomenologica delle conseguenze pratiche del pensiero di Karl Marx. Di là delle critiche teoriche che sarebbe possibile muovere ai punti del suo pensiero che sono stati evidenziati in precedenza, la sua stessa II Tesi appena citata bolla il suo pensiero – paradossalmente solo nel sentire comune che identifica marxismo e comunismo – come un’ideologia visceralmente anticomunista. Di sicuro, la più subdola e, in questo senso, appunto “ideologica”: ancora una volta nel senso stesso in cui lui usa questo termine.
Enrico Voccia
(1) ANTONELLI, Tiziano, “I due Marx”, in Umanità Nova, Anno 96 n.19 – 5 giugno 2016, p. 7.
(2) “Gli stalinisti in Spagna, cioè gli assassini di Berneri, erano alleati con i repubblicani e con i catalanisti ed erano violentemente contrari alla collettivizzazione di fabbriche, terre e servizi. Anzi, quando dopo le giornate di maggio ’37 essi presero il sopravvento sugli anarchici e sul POUM, si premurarono subito di restituire ai vecchi proprietari molte delle terre aragonesi che erano state espropriate e collettivizzate dai contadini.” STRAMBI, Claudio, “Berneri e la Rivoluzione in Spagna. L’Ultima Pellicola di un Combattente Rivoluzionario”, in Umanità Nova, Anno 96 n.19 – 5 giugno 2016, pp. 4-5, p. 5.
(3) MARX, Karl, “Tesi su Feuerbach”, in Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Roma, Editori Riuniti, 1950, pp. 77-80, p. 77. La traduzione è di Palmiro Togliatti.